ROCKETS – THE FINAL FRONTIER
Il rock è la sola cosa che conta davvero
Alcune doverose premesse e nessuna promessa di brevità: quando scrivo di questa band proprio
non ci riesco.
Ho letto paragoni inquietanti tra questo lavoro e quelli del passato e, in tutta franchezza, credo
che questa tentazione debba essere accantonata una volta per tutte. La reputo una mancanza di
rispetto plurima o almeno duplice: lo è nei confronti dei Rockets di quarant’anni fa (e oltre) poiché
quel gruppo – che fu realmente pioneristico – creò (quasi) da zero un sound originalissimo, uno
spettacolo coinvolgente, un look mai visto prima; ma lo è anche nei confronti dei Rockets di oggi
poiché sentirsi costantemente sotto esame non tanto per ciò che si fa ma, piuttosto, per quanto
ciò che si fa assomigli o meno al passato è scoraggiante. Lasciando da parte la storia personale di
Quagliotti che è ben nota a tutti noi, giova ricordare che i suoi quattro compagni hanno alle spalle
una carriera strepitosa: c’è chi ha suonato con i Trip e gli ex New Trolls Gianni Belleno e Maurizio
Salvi (Kiarelli), chi ha collaborato con Dizzy Gillespie e Stan Getz (Riccobono), chi è stato al fianco di
Percy Sladge e Boney M ed è direttore didattico e insegnante di chitarra e armonia presso il Music
Lab di Milano (Martino) e chi, infine, si è formato con Jeff Porcaro e ha lavorato insieme a Franco
Battiato, Gianna Nannini, Ligabue, Gianluca Grignani, Edoardo Bennato e attualmente suona dal
vivo con la PFM: è sufficiente per dire che tali esperienze sono di gran lunga superiori a quelle dei
cinque ragazzi francesi dell’epoca, quasi tutti alle prime armi?
La realtà è che “The final frontier” non c’entra nulla con “quei” Rockets e, con ogni probabilità,
non c’entra nulla neppure con i Rockets successivi, quelli di “Kaos” e “Wonderland”: da questo
punto di vista appare chiaro il dietro-front di Quagliotti rispetto alla scelta di non fare più dischi in
studio dopo l’arrivo di Kiarelli giacché proprio il cantante, a mio modo di vedere, ha avuto un ruolo
decisivo nella gestazione (oltre, naturalmente, alla composizione) di tale album.
Inoltre “The final frontier” non è “Alienation”: tra i due album non ci sono tre anni di differenza, ce
ne sono oltre quaranta. Per il secondo i paragoni con i Rockets di allora erano non solo opportuni
ma addirittura sacrosanti: ci siamo chiesti – giustamente – se avrebbe retto il paragone con
“Galaxy”, se fosse stato in grado di cambiare il destino del gruppo; ci siamo chiesti inoltre se fosse
o meno un album migliore di “Pigreco” (e qui ogni opinione è legittima senza dimenticare,
tuttavia, che “Pigreco” con i Rockets c’entra ben poco); ci siamo chiesti infine quante delle
sonorità dei lavori precedenti fossero rimaste integre e quante, invece, fossero nuove, originali,
diverse.
Ebbene, questi ragionamenti con “The final frontier” non possiamo farli. Dire che quest’album è il
migliore dopo “Galaxy” significa esprimere un giudizio del tutto privo di senso, un po’ come
paragonare “Selling England” dei Genesis a “Made in Japan” dei Deep Purple: ovvio che un amante
del progressive preferisca il primo ed un appassionato di rock più duro il secondo.
Altra questione: nell’ascoltarlo mi sono divertito a notare influenze, ispirazioni e assonanze con
altri gruppi, principalmente del passato. Se definisco “Ballade pour la terre” come un pezzo di
matrice floydiana o “Hd 1” come ispirato da Genesis e Emerson, Lake & Palmer, ciò non vuol dire
che i compositori di tali brani abbiano scopiazzato qua e là nel mondo del rock, tutt’altro: le
assonanze e i rimandi che mi permetto di evidenziare, oltre ad essere del tutto personali, stanno a
significare che il gruppo ha in sé tali fonti, le ha interiorizzate nel corso degli anni ed esse
riemergono sublimate in un prodotto assolutamente originale, nuovo, freschissimo.
In conclusione: “The final frontier” va valutato come prodotto a sé stante. E’ più difficile giudicare
senza avere punti di riferimento e di paragone ma è esattamente così che bisogna approcciarlo.
L’odore di anni 70 permea tutto l’album e lo si percepisce fin dal primo brano. Lo si deve anche
alla voce di Kiarelli, una sorta di ibrido tra David Coverdale e Ian Gillan rispetto alla quale “Ride the
sky” è il biglietto da vista ideale. Suoni vicini ai Deep Purple più maturi, quelli di “Perfect strangers”
e di “The house of blue light”, per intenderci: energia allo stato puro. Volete i vecchi Rockets per
forza? Li trovate nel finale che richiama molto da vicino la sequenza iniziale di “On the road again”
e nel testo che è una sorta di inno (“cavalca il cielo, vola con i Rockets”) in stile “Universal band”
ma anche un’amara costatazione sullo stato del nostro pianeta (“guarda indietro a ciò che hai
fatto, la terra è andata in pezzi”) che ricorda molto da vicino i toni amari tracciati da “In the
galaxy”.
Segue un altro brano decisamente rock, “Stand on the world”, ma dal passo più lento rispetto al
precedente. Kiarelli mette in mostra in pochi minuti la sua voce camaleontica giacché qui somiglia
vagamente a David Bowie e fa ampio uso di più linee vocali sovrapposte, peraltro con un risultato
finale gradevolissimo. Gli echi dei Deep Purple li mantiene in vita Quagliotti con un contrappunto
degno dell’hammond di Jon Lord. Intermezzo e finale acustico da brividi. Il testo è cupo, da
atmosfera postatomica, e sembra proseguire nella direzione tracciata dal precedente, quella di un
pianeta vittima di autodistruzione.
La malinconia si accentua nella ballata successiva, “Flesh and bones”, che riparte dalle note
acustiche del pezzo precedente. Chi ha ascoltato i lavori solisti di Quagliotti non tarderà a capire
che è il tastierista il compositore del brano il quale ricorda gli episodi più riusciti di “Undo”. La
musica è altamente evocativa e si sposa perfettamente con il testo di Kiarelli, una commovente
“confessione” di un non-umano che vorrebbe sangue, carne ed ossa in cambio della propria
immortalità (“non voglio vivere per sempre, voglio vivere e morire come te”). L’atmosfera del
ritornello ricorda leggermente certe atmosfere evocate dai Queen, non solo per l’assonanza delle
parole con “Who wants to live forever”. Anche questo finale è in crescendo con i virtuosismi vocali
di Kiarelli, i contrappunti di Martino e le tastiere di Quagliotti che sfumano gradualmente
l’insieme.
Dopo due pezzi intimistici, in “All 4 one” torna l’energia di inizio album. Si tratta di un brano solo
apparentemente divertente e danzereccio ma, in realtà, presenta alcuni spunti che meritano di
essere sottolineati: il testo, anzitutto, in cui Kiarelli tocca un tema politico che incita alla ribellione
collettiva (“tutti per uno e uno per tutti”) contro un leader ingannatore “che dice solo stronzate”;
fa poi un chiaro riferimento all’araba fenice (“risorgi dalla ceneri”), l’uccello mitologico dal
piumaggio splendente, capace appunto di rinascere dalle proprie ceneri simboleggiando in tal
modo la resilienza, la capacità di far fronte alle avversità mediante le nostre risorse interiori. Poi la
musica che, composta da Quagliotti, parte con un intro di batteria che accenna a “We will rock
you” dei Queen per poi presentare un effetto sitar meraviglioso che conferisce al tutto un
gradevole tocco orientaleggiante; Riccobono al basso somiglia al miglior Rick Savage e alle sue
accordature in drop (o ribassate) che permettono di ottenere sonorità più basse e pesanti. Tutto il
brano, in generale, ha sonorità simili a quelle dei Def Leppard di “Hysteria”.
“Ballade pour la terre” è' il primo strumentale dell'album e l'unico brano che porta la firma di un
membro del gruppo – Gianluca Martino – che non sia Quagliotti o Kiarelli. La sensazione è quella di
una canzone nata da una improvvisazione in sala prove, non certamente studiata a tavolino. La
chitarra è decisamente protagonista ma la vera poesia del brano sta nell'intreccio della stessa con
le tastiere che lo sublima fino a renderlo massimamente evocativo. E, quando si parla di canzoni
evocative, la mente corre veloce ai Pink Floyd che rappresentano la fonte di ispirazione principale
per "Ballade pour la terre", uno dei vertici raggiunti in questo album.
Con “Break the silence” entriamo nella mente malata di Pink, il Bob Geldof di “The wall”: testo e
musica ci riportano lì, in quel concerto che agli occhi del protagonista appare come un raduno
nazista nel corso del quale arringa le masse dal palco. Sembra proprio di rivederle quelle squadre
naziste e quei martelli che marciano al passo dell’oca perché “Break the silence” attinge a piene
mani da “Run like hell” dei Pink Floyd. Lo fa da un punto di vista squisitamente musicale con quelle
chitarre dall’effetto ritmico pulsante e la tecnica del “Palm mute” ad interrompere per un solo
istante il suono. Ma anche le liriche sferzanti giocano un ruolo di primissimo piano: “parole di odio
che scrivi nella tua stanza, come uno sciacallo ti nascondi nell’oscurità. Ti piace sputar bile sul
vincitore. Nessuno ti conosce e a nessuno importa. Le tue parole malvagie svaniscono nell’aria”.
Un brano “cattivo”, per certi versi brutale. Tagliente al pari di “Fils du ciel” tanto per intenderci.
Grandi aspettative per “Cosmic castaway” in virtù della presenza di Alain Maratrat e un po’ anche
per il titolo del brano, un chiaro riferimento al passato. Sul testo ci siamo, ricorda effettivamente
la solitudine dell’astronauta di “One more mission” (“sono stato lasciato qui tutto solo, perso nello
spazio e nel tempo”) mentre sulla musica, per quanto mi riguarda, ci siamo un pochino meno. O,
meglio, in termini assoluti è un brano decisamente evocativo, gradevole, con un assolo di chitarra
– c’era da scommetterci – di gran livello e che, ovviamente, ci riporta indietro nel tempo. Il
problema, dunque, sta principalmente nel giudicarlo rispetto a qualcos’altro. Perché, come scritto
in premessa, ogni brano di questo lavoro va apprezzato per ciò che è. Da tale prospettiva la voce di
Kiarelli impostata in modalità David Bowie è sicuramente sorprendente così come il tono
malinconico del brano che tale voce finisce per sublimare. Un po’ ripetitivo, si apprezzerebbe
maggiormente se fosse più breve.
“Cyber love” mi ha fatto tornare in mente un discusso album dei Magnum e la sua title-track
“Vigilante”. In realtà non c’è una sola nota che le accomuni ma c’è un insieme, un risultato finale,
una sorta di perfezione che le unisce profondamente. “Cyber love” è pura energia che, però, non
cede un solo millimetro alla durezza dei suoni, all’aggressività della musica, alla spontaneità a volte
eccessiva di brani simili: tutti i suoni sono amalgamati alla perfezione, ogni musicista è, a tratti,
protagonista ma, pochi secondi dopo, torna insieme agli altri. Brano stupendo con un
arrangiamento perfetto.
In merito a “Death and resurrection” sono la persona meno adatta ad esprimere un giudizio
poiché si tratta di un brano essenzialmente dance, forse anche techno per certi aspetti. Nel genere
è sicuramente bellissimo, ricco di mille sfaccettature che si colgono dopo ripetuti ascolti ma debbo
essere sincero, non fa per me.
Il fraseggio di synth iniziale rimanda un pochino a Mike Oldfield poi entra il vocoder e, per la gioia
dei vecchi fan, non esce più dominando quasi tutto il cantato. Altri rimandi alla Silver Age: la rima
cercata su parole che terminano con il suffisso “tion” (generation, globalization, domination…)
largamente usata da Gerard L’Her (“In the black hole”, “Run to the stars”, “Future game”) e il riff
finale del brano molto simile a quello di “Space Rock”.
Il testo tratta essenzialmente di una globalizzazione intesa sempre più come standardizzazione di
un sistema in cui a capo c’è il denaro: la sola via d’uscita possibile è l’auto-annientamento e la
palingenesi.
Adesso giù il cappello, signori. Giù il cappello di fronte a “Hd 1” perché qui Quagliotti si supera. E’
come se tutte le sue influenze musicali venissero sublimate in una composizione unica per dar vita
ad un brano che è progressive al cento per cento. Quali citare tra queste? I Genesis? Certo che sì.
Ma anche – e forse addirittura soprattutto – Emerson, Lake & Palmer dato che la chitarra appare
solo dalla metà del brano. C’è anche qualcosa del prog italiano giacché il piano elettrico ci rimanda
a Flavio Premoli e alla PFM degli anni settanta. C’è tutto questo ma, nel contempo, anche nulla di
tutto questo: è evidente che Quagliotti oggi è perfettamente in grado di comporre qualcosa di
nuovo ed originale di un genere musicale che, per i più (ma non per me) ha già detto tutto (o
quasi) nel corso degli anni settanta. Se dico che “Hd 1” è la vetta più alta dell’intero album lo dico
a prescindere dal mio amore per il progressive: questo brano può tranquillamente affiancare le
cattedrali barocche del passato con una dignità altissima.
Per chi ha acquistato il vinile l’ascolto finisce qui. Ed è un vero peccato perché, senza il CD, si perde
una perla di rara bellezza rappresentata da una suite finale d’altri tempi, seconda, per spessore,
solo ad “Hd 1”. Prima di essa i Rockets ci regalano un pezzo electronic-punk senza grandi pretese
ma, tutto sommato, piacevole anche per chi – come il sottoscritto – proprio non digerisce il
genere: “Punk from mars” è ovviamente lontana anni luce dal punk tradizionale di Ramones e
Clash (ma anche da quello anni ’90) mentre è più vicina – per sperimentazione e sonorità – allo
stravagante esperimento tentato in Alienation con “Ska’red”.
Il testo è in linea con il genere perché suggerisce una ribellione più “di strada” che autenticamente
politica (“quando gioco, stabilisco le regole, ah! ah! … dici che i tempi stanno cambiando adesso, ti
dico che è sempre la stessa cosa … per me sei solo una perdita di tempo”) poi, nel finale, si capisce
che siamo ancora in un contesto meta-umano (“non lasciarti coinvolgere dalla razza umana, uh!
uh! perché per metà è crudele e folle”). Gradevole e intelligente averla mantenuta in appena tre
minuti. Altrimenti che punk sarebbe?
Nella migliore tradizione progressive, l’album si conclude con una suite in tre parti, la bellissima
“Epilogue”. La prima parte – “Sitting on a star” – è una ballata rock la cui intro di chitarra sembra
suonata da David Gilmour per quanto è bella. Consiglio di ascoltarla leggendo il testo perché le
parole sembrano sgorgare dalla musica e viceversa. Il tema – che torna piuttosto frequentemente
– è la riflessione di un non-umano inerente le disastrose condizioni in cui versa il pianeta terra,
nettamente peggiorato dall’ultima volta che è stato visitato: “continui ad affogare in un mare di
lacrime, non imparerai mai … oh, umano, non vedi? Affamato di potere, accecato dall’avidità …
Ora sono seduto su una stella e guardo quanto sei piccolo”.
Il brano cresce d’intensità per poi tornare acustico e crescere nuovamente fino al ritornello finale
(meravigliosa nella sua semplicità la rima “star-are”) con il quale si fonde alla seconda parte il cui
titolo – “Final journey” – indica il termine di un lungo viaggio. Si tratta di uno strumentale
meraviglioso che raggiunge vette di pura poesia condensate in poco più di due minuti e che, come
ogni finale, è tristissimo e malinconico. Intro di chitarra classica e pianoforte poi, all’ingresso di
basso e batteria, Quagliotti esegue un passaggio tastieristico di grande impatto tanto da ricordare
le migliori composizioni di Tony Banks versione fine anni ‘70/inizio ’80.
La suite si chiude con i cinquanta secondi di “Arrival” che – ancora in ottica prog – riprendono il
tema della parte precedente e la concludono definitivamente. Qualcun altro oltre al sottoscritto
ha notato un’assonanza nelle note finali con “Here comes the flood” di Peter Gabriel?
Per concludere la lunga disamina, “The final frontier” è un ottimo lavoro.
Non so dire se sia il migliore del gruppo dopo Galaxy, sono due album talmente disomogenei da
rendere impossibile il confronto.
Così come non so dire se rappresenti un ritorno all’album d’esordio o a “Plasteroid”.
Del resto, è veramente importante cercare tali similitudini?
Per quanto mi riguarda è un lavoro che ogni appassionato dei Rockets dovrebbe avere.
Perché – non dimentichiamolo mai – il gruppo ha sempre composto e suonato musica rock.
E’ questa la sola cosa che conta.
Alessandro Savi