Gli Inior , seppur di recente formazione (2012), hanno alle spalle anni di “fermentazione” musicale di gruppo.
I compositori Marco Berlenghini e Flavio Stazi (alla voce) facevano parte degli Apple Device band progressive rock romana attiva nella scena live locale dal 2007 al
2010, danno vita a questo nuovo progetto che sfocia nell’album Hypnerotomàchia (dal greco “combattimento per amore in sogno”).
Le sessioni di registrazione e di mixaggio si svolgono a cavallo tra il 2013 e il 2014 e vantano alcune preziose collaborazioni come quella di Daniele Pomo alla batteria e Riccardo Romano al mixaggio. Hypnerotomachia esce negli store digitali il primo novembre 2014 ed è distribuito in versione CD dalla storica etichetta italiana BTF.

 

Andiamo ad ascoltare questo splendido lavoro, brano per brano e mi raccomando, anche voi…cliccate sul player e ascoltate o riascoltate, non limitatevi a leggere.
L’album apre con Paper Ship che già si annuncia con un intro assolutamente non banale, dall’intreccio arzigogolato ed armonioso allo stesso tempo.
Un pianoforte quasi ipnotico che si fonde a chitarre acustiche e distorte in un disegno perfetto per poi proseguire lo schema sviluppando questa equilibrata complessità in un 12/8 strumentale tra giochi quasi “accademici” di pianoforte a rincorrersi vari di linee di chitarre; la batteria ruffiana che asseconda i giochi musicali, delle tastiere arricchiscono il tutto.
I compositori la sanno lunga: le voci compaiono solo nella seconda metà del brano, le atmosfere sono piacevolmente settantiane, ma con un retrogusto sperimentale dei giorni nostri.
Dopo la parentesi vocale, un importante episodio pianistico per poi esplodere in un tripudio di ariose chitarre distorte e concludersi con un leggerissimo accordo “alla Satie”.
Cover_photoMu.S.E ci stupisce con un’andatura ostinata e ancora quei sapienti rincorrersi di chitarre, il tutto come fosse un canone classico, ma con sonorità rock…ed ecco un nuovo elemento: un bel sinth!
La predominanza finora appare strumentale dove la fanno da padrona intrecci chitarristici, cambi ritmici, alternanza tra pieni e vuoti; il tutto con un’influenza quasi fusion d’insieme, ma in maniera latente.
Si orientaleggia con Stain of Steel , terza traccia del disco, ritmica quasi ossessiva con un micro-tema musicale che si ripete e si evolve allo stesso tempo.
La vena compositiva è sicuramente colta e tecnica, senza tuttavia trascurare le emozioni; ci torna in mente la pulizia e la saggezza compositiva dei Dream Theater in alcuni punti; il timbro vocale si sposa benissimo con tutto il progetto, dai tratti qualche volta “epici” alla Manowar, pur presentando spesso sfumature estremamente morbide, quasi pop, oserei dire radiofoniche.
I brani sono di una certa importanza, anche nella lunghezza, dai quasi tre minuti ai quasi otto minuti, il tutto progettato con una certa sapienza d’insieme.
Con Worn-Out finalmente un po’ di sana elettronica, una batteria volutamente “ignorante” dalla ritmica cadenzata che si sposa con delle corposissime chitarre.
Che…attenzione! In questo disco non si parla mai “della chitarra”, ma come minimo di almeno due linee che si intrecciano, spesso una nel canale destro e l’altra nel canale sinistro, scelta appagante.
Approvo la distribuzione degli interventi vocali che non fanno di questi brani delle vere e proprie “canzoni”, dove la voce è presente dall’inizio alla fine, ma proprio invece “dove necessario”.
From Blue to Red dà spazio al timbro di nuovi strumenti quali piano elettrico, organo hammond, le ritmiche si fanno sempre più complicate e soprattutto variegate. Cambi di tempo come se piovesse, quasi a voler esplorare universi sonori e progetti antitetici…sarà forse il significato del brano: dal blu al rosso (quindi dai colori freddi ai colori caldi in pratica)? Che dire…una vera bomba sinestetica!
Gli interventi vocali sono fumosissimi, anche per via degli effetti sulla voce (diversificati), ancora una volta a confermare il probabile significato del brano.
La batteria è forse l’elemento che mi diverte maggiormente e soprattutto mi entusiasma nella sua evoluzione.
INIOR_photoSiamo arrivati alla sesta traccia dell’album “Starslave” da un intro che, a dir la verità, mi sa proprio di porno…sarà per il titolo?
Stupiscono sempre le armonie, mai scontate, a volte con giochi cromatici e abbinamenti ai limiti della dissonanza dove davvero nulla è a caso, la precisione ti fa rimanere incollato all’ascolto.
Devo dire che le ottime incisioni, il sapiente missaggio, ecc…aiutano sicuramente in questa percezione di godimento per l’ascoltatore.
Resilient ti sbatte in faccia il timbro della chitarra, sempre più piena e calda che duetta con una voce altrettanto carismatica.
Delle oscure sonorità elettroniche emergono assai in profondità, quasi senza farsi notare, ma apportano quelle suggestioni che accarezzano la libidine uditiva dell’ascoltatore.
Alla fine del brano, l’elettronica esce allo scoperto con un sinth dal gusto analogico e “vintage” per poi morire in un finale dal gusto “horror-soundrack”.
Ebbene sì, siamo alla penultima traccia dell’album, dal titolo INI.OR che richiama il nome della band.
Chitarre, chitarre e ancora chitarre ben in evidenza, sono loro le protagoniste vere del disco; sono le leader che coordinano tutti gli altri elementi.
A metà brano abbiamo uno sviluppo metal, a piccolissimi tratti quasi crossover, verso la fine le chitarre “clean” caldissime che duettavano sono state sfanculate definitamente nell’arco della traccia e adesso due chitarre distorte combattono fino all’ultimo sangue, si scornano come non mai e una ritmica forsennata di batteria li incita fino a un epilogo di morte gloriosa.
L’album chiude in maniera fantasiosa e quasi sbarazzina con Dust, come a voler congedarsi felicemente dagli ascoltatori.
Straordinari gli interventi di sinth che tra accompagnamento e virtuosismo ci regalano momenti di spensieratezza che ci sollevano a tre metri da terra.
Un album che sicuramente non si risparmia, frutto di fatica ed entusiasmo: una panacea per il godimento dei nostri neuroni musicali.

 


 

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