Storia della narrativa Italiana : Alba De Céspedes, Quaderno proibito
Nel Quaderno Proibito, di Alba De Céspedes, il tema del proibito investe tutto il testo, a partire simbolicamente dal titolo; dall’inizio alla fine, ma soprattutto nella prima parte, mentre man mano diventa sicuramente problematico, messo in discussione, una volta sopravvenuta una certa presa di coscienza.
Intendo il proibito come una dimensione negata, e conseguente ricorso al sotterfugio, dove le cause sono molteplici: concezioni generazionali radicate, mancanza iniziale di autocoscienza, assegnazione di un ruolo stereotipato da parte di altri, collocazione storica, combinazione delle forze sociali.
Principalmente ritengo che il tema del proibito in relazione al quaderno in sé, sia una questione significativamente simbolica, ma isolata.
In pratica, la scrittura di Valeria è un’attività accuratamente nascosta perché aliena alla situazione, nonostante ella tenterà di sottrarla a questo stato di clandestinità, fino a quando il quaderno sarà bruciato, rimarrà sempre occulto e mai svelato.
Quest’aspetto pratico e non simbolico è allo stesso tempo isolato, in quanto questo tema domina molteplici aspetti da considerare e che gradualmente chiarirò.
Questo tema s’interseca con il concetto dello spazio, del tempo, nei modelli di vita altrui, nella negazione dell’amore romantico, nella negazione della sua vera identità, della gratificazione del lavoro come fonte di auto-realizzazione.
Già dalle prime pagine il simbolo del proibito introduce tutta la narrazione; un esempio lampante è quando il tabaccaio annunciò che vendere oggetti la domenica al di fuori dei “tabacchi”, appunto era proibito.
In particolare non era possibile acquistare quei quaderni neri e lucidi da cui tanto era attratta, riconducevano il suo pensiero a quando era bambina.
Se si ragiona per simboli, forse è da quei tempi remoti che dobbiamo trovare le radici di quel senso di colpa che rende proibiti tutto ciò che si analizzerà man mano.
Tutto ha inizio da un fortissimo dualismo: il proibito da una parte e l’intenzione di infrangerlo (in un primo momento inconscia) dall’altra.
Ritengo che il travaglio interiore che dà vita ai meccanismi narrativi del romanzo/diario, sia proprio quel potente dualismo.
Ecco un passo che esprime il secondo polo di questo dualismo, ovvero il polo della trasgressione, del viaggio verso l’auto-formazione:
“questo quaderno, con le sue pagine bianche, mi attrae e allo stesso tempo mi sgomenta, come la strada.” [20 gennaio ]
“A quarantatré anni, se tutto quello che possediamo ci viene meno è troppo difficile cominciare a vivere.
Eppure vi sono momenti in cui la possibilità di farlo mi appare invece attraentissima.”
[2 febbraio]
“Per scrivere il diario trascuro i miei doveri. Il fatto è che mi pare d’essere stata io stessa a inventare molti obblighi per vincolarmi da essi.”
[5 febbraio].
Da questo contrasto di forze, i sotterfugi per occultare questo oggetto, tanto reale, quanto simbolico.
Questo senso di sgomento sarà avvertito spesso nel corso delle pagine, anche superata la metà del testo:
“Sempre più mi convinco che l’inquietudine si è impossessata di me dal giorno in cui ho comprato questo quaderno: in esso sembra nascosto uno spirito maligno, il diavolo.”
[7 marzo]
“Ogni volta che apro questo quaderno mi tornano in mente le ansie che provavo quando ho incominciato a scrivervi. Ero assillata da rimorsi che avvelenavano tutta la mia giornata. Avevo sempre paura che il quaderno venisse scoperto, anche se allora conteneva nulla che potesse giudicato colpevole”. Ma ormai è diverso: in esso ho registrato la cronaca di questi ultimi tempi, il modo in cui, a poco a poco, mi sono lasciata trascinare verso atti che condanno e dei quali, tuttavia, come di questo quaderno, mi sembra di non potere fare più a meno. [17 aprile]
La frase pronunciata dal tabaccaio è come se presagisse tutti gli accadimenti che seguiranno nelle pagine di questa scrittura occultamente intima.
Qualche volta l’istinto di trasgressione in contraddizione all’intima negazione constante si ritrova nell’attrazione per le cose materiali che la condizione economica le vieta o perlomeno agisce secondo un’azione limitante.
“Sarebbe stato bello avere un momento di rivolta e accettare tutte le tentazioni, tutte le follie, dire – basta, oh, basta – entrare nei negozi, comperare tutte le borse ed essere guardata da tutti gli uomini come da quello che ho incontrato ieri nel portone dell’ufficio”. [24 gennaio]
“…ho fatto una cosa che non facevo da gran tempo. Ho preso un tassì e mi sono atta portare a casa, ho lasciato una generosa mancia, forse eccessiva, – Tenga pure – . Ero proprio soddisfatta di aver buttato via cinquecento lire.”
Se da un lato le ribellioni metaforiche sono sempre presenti, dall’altro, ci si rende conto che proprio non si può.
E’ proibito”: ossessione che ricorrerà soprattutto nella sua coscienza non ancora svegliata, intrisa dal suo costante senso di colpa.
Gradualmente, Valeria, si rende conto di come il tempo le sia negato.
Si accorge che la vita familiare e il lavoro, la obbligano a rari momenti di solitudine: prende coscienza del fatto che il tempo da dedicare esclusivamente a se stessa è piuttosto misero.
“Non avevo mai considerato prima d’ora che a causa dell’esiguità della nostra casa e dell’orario d’ufficio, io ho raramente occasione di rimanere sola” [10 dicembre].
“Sono costretta a scrivere di notte, durante il giorno non ho mai pace. Il fato che soltanto a quest’ora mi riesce di rimanere sola per scrivere mi a comprendere che adesso per la prima volta, in ventitré anni di matrimonio, io dedico un po’ di tempo a me” [24 gennaio].
“Pensavo di possedere il tempo che ho investito che ho investito nei figli, come un capitale; ma adesso essi se lo rubano, se lo portano via.
In realtà io non possiedo che il tempo investito nel lavoro: solo quando sono in ufficio mi sento libera e non ho l’impressione di mentire”.
[24 febbraio]
Accanto a questa negazione del tempo v’è quella dello spazio; si sottolinea come la casa sia “esigua” e si tornerà su questo punto anche più avanti : Viviamo ancora nella stessa casa dove Michele ed io siamo venuti ad abitare appena sposi. E’ divenuta troppo stretta; per dare la camera a Mirella abbiamo dovuto rinunciare al salotto..[14 gennaio]
“Avrei bisogno di essere sola, qualche volta; non oserei mai confessarlo a Michele, temendo di dargli un dispiacere, ma sogno di avere una camera tutta per me…io mi accontenterei di uno sgabuzzino” [27 gennaio]
Questa sensazione di asfittica non-collocazione all’interno delle pareti domestiche, in uno stadio avanzato di coscienza, porterà la protagonista ad atti di ribellione interna verso questo spazio negato, ma allo stesso tempo di una propensione al desiderio di collocazione.
“Ormai la casa mi sembra una gabbia, una prigione. Eppure vorrei poter sprangare gli usci, le finestre, vorrei essere costretta a rimanere giorno dopo giorno qui dentro.” [1 aprile].
Attraverso il quaderno si rende conto della sua identità proibita, ella è ormai “mammà”, non più Valeria, così come era chiamata un tempo nelle lettere di Michele quando erano fidanzati.
“Eppure sembrava naturale che mi chiamasse così da fidanzata e nei primi anni del nostro matrimonio, e nelle lettere che mi scriveva quando era in guerra, in Africa. – Valeria mia -, scriveva sempre.”
L’ osservare il suo nome scritto in prima pagina, vuol significare l’andare oltre a questa apparente, ma di fatto crudele, negazione.
“…Michele, oggi, a tavola, lodandomi, mi diceva: – eh, sei proprio diversa dalle altre, mammà – e mi sorrideva come a una bambina. L’ho pregato di non chiamarmi mammà, ma Valeria. Va benissimo, Valeria, egli ha detto subito, in tono di affettata premura. Ma il mio nome, pronunziato da lui dopo tanto tempo, mi ha procurato un’impressione tanto bizzarra che, ridendo, ho soggiunto: – scherzavo…” [28 gennaio].
“Ho incominciato a piangere e lui mi consolava. Non far così, mammà. Nell’udirmi chiamare in tal modo ero invece incoraggiata a piangere; giacché ormai per lui, da anni, io impersono soltanto questa figura che ora sta naufragando e mi trascina con sé.”
Questa mutilazione dell’identità propria, si rilette quando il suo io si raffronta con la dimensione esterna alla casa, quella della strada; una contestualizzazione del tutto simbolica con il suo vissuto interiore.
“Non so spiegarmi, ma, insomma, fuori di casa non sono più io.
Uscita dal portone mi sembrerebbe naturale incominciare a vivere una vita tutta diversa da quella consueta, sono invogliata di prendere strade che non sono nel mio itinerario quotidiano, incontrare persone nuove, a me finora sconosciute, con le quali per essere allegra, ridere.” [20 gennaio]
Insieme alla negazione dell’identità, credo si possa affiancare la negazione della verità, se per verità si intende la veridicità dell’identità interiore dimostrata agli altri e non la maschera che si è costretti ad indossare, il ruolo che gli altri ci impongono e servendosi di esso ci trasformano in uno stereotipo.
Valeria è irritata dal fatto che Riccardo dal fatto che viene presa a modello di moglie perfetta e di conseguenza riporta quella sorta di modello artefatto a Marina.
“Non devi perlare di me a Marina” [2 marzo],
Questo fraintendimento di identità, possiamo riscontrarlo anche quando Michele crede che Valeria era in gioventù ribelle, al contrario della realtà.
Un meccanismo che si verifica continuamente.
Credo che anche il colore del quaderno sia fortemente simbolico e significativo: il nero, specchio di una dimensione occulta, misteriosa, che scava nel sub-consciente e quindi proibita.
L’antitesi di questa dimensione intima di formazione, di occulta rinascita, di crescita, è il marito Michele, che moltissime pagine più avanti ella dichiarerà “già morto da tempo”.
Emblematiche in questo senso le parole di Michele: “Oh Cara” ha detto: “che segreti vuoi che abbiamo ancora alla nostra età?”. [21 dicembre]
A questo proposito riguardante la sfera di Michele, subentra il concetto di negazione dell’amore romantico.
“Se fossimo soli potremmo are anche un piccolo viaggio, lo desideriamo da tanto tempo, lui dice che vorrebbe andare a Milano, per vedere ciò che è stato ricostruito dopo la guerra.
Io invece, vorrei andare a Venezia, dove andammo in viaggio di nozze.
E’ assurdo, ma proprio in questi giorni, in cui sono tanto angustiata mi capita di tornare spesso a Venezia col pensiero; mi vedo in gondola, o in piazza San Marco tra i colombi, e la luce attorno è giallo e grigio smaglianti, come in quel mese d’ottobre. Non sono più tornata a Venezia d’allora.” [3 febbraio]
Il periodo conclude con questa espressione agghiacciante e simbolica allo stesso tempo, ovvero: Venezia, emblema dell’amore romantico che Valeria, da allora, non ha più conosciuto e quasi certamente non ha mai conociuto.
Venezia, un sogno ricorrente, un sogno proibito che tornerà ad essere familiare nella futura relazione con Guido.
Ci sono periodi che testimoniano, più che una negazione dell’amore romantico, una negazione dell’amore stesso, se si riflette sul fatto che non si può intendere l’amore senza la gelosia:
“Ieri volevo domandargli: – Mi ami ancora? – Sono tanti anni che non glielo chiedo, un invincibile pudore mi ha trattenuto dal farlo. – Mi vuoi bene Michele? – gli ho chiesto.
– Che cosa temi mammà? – ha detto lui con un sorriso: – dovresti saperlo ormai. –
Con fare scherzoso mi ha dmomandato se fossi gelosa e io, arrossendo, ho risposto di no.
Con maggiore chiarezza su questa negazione dell’amore, Valeria si chiede: “comincio a domandarmi che cosa significhi per me la parola “amore”, riferita a Michele, e insomma a quali sentimenti voglia alludere quando dico: “Amo mio marito”. [24 aprile]
A queste diaboliche negazioni, si aggiunge anche il non-diritto al piacere, al godere di qualcosa, che si potrà constatare in seguito con maggior veemenza.
“Temo che, ammettendo di aver goduto sia per un breve riposo, uno svago, perderei la fama che possiedo di dedicare ogni attimo del mio tempo alla famiglia”. [1 gennaio].
Quest’avversione verso l’operosità, questa negazione di ogni stasi meditativa, ha radici ben lontane dal presente, è opportuno sottolineare come la madre di Valeria si esprime: “…dice sempre di non amare le poltrone; invitano all’ozio, dice e persino alla malinconia. [15 gennaio].
Persino la malattia, come fonte di riposo, è quasi un auto-negazione, un lusso che viene limitato il più possibile e solo allora gli altri si avvedono del suo stato.
La madre in molti passi sottolinea come sia meglio non pensare, il pensiero è vietato, bisogna sempre tenersi occupati; questo per preservare la figlia da quella dolorosa presa di coscienza che mette gradualmente in atto.
La negazione dell’idea del piacere si manifesta al massimo grado quando ella affermava di “peccare” con Michele controvoglia; pensiero molto comune connaturato alla cultura del tempo.
Il suo contrasto interiore si presenta anche nel rapporto con le amicizie, gli altri insistono e lei cede quasi solamente per far piacere agli altri, se fosse per seguire l’autocoscienza proibitiva prevalentemente dominante nei primi giorni degli scritti, ella non andrebbe.
“Ogni anno dichiaro di non voler andare al solito the che, in occasione del suo compleanno, ella offre ad alcune compagne di collegio con le quali è restata in amicizia. Dico che ho troppo da fare per assentarmi dall’ufficio, sostengo che, se potessi farlo, ne approfitterei per cose più importanti.” [3 gennaio].
Si è parlato precedentemente di “negazione dell’altrui dimensione”, intesa come privazione di appartenenza a un gruppo sociale, ma soprattutto come privazione delle comunicazione.
E’ il caso di quando Valeria si reca da Giuliana e dalle amiche-pupazzo,questo si verifica a partire da elementi esteriori fino ad elementi puramente ontologici.
“Il mio cappello di feltro nero scompare di fronte ai cappelli di raso colorato delle amiche”…”non sapevo a che cosa attribuire la nostra diversità, che ogni anno sento più profonda”..”comprendevo che…io non potrò mai più intendermi con Giuliana e le altre amiche”.
La dimostrazione di questa privazione non molto consapevole di appartenenza a gruppi sociali, si esplicita ad esempio quando Valeria si avvede che molti numeri della rubrica sono ormai inutili, in quanto non hanno più con il marito molte frequentazioni.
“Non sono passati più di sei o sette anni da quando li ho ricopiati l’ultima volta, eppure mi avvedo che molti nomi, tra i primi scritti nella prima rubrica, era inutile trascriverli.”
Parlando al telefono con l’amica Clara Poletti, conferma quanto il tempo le sia negato, aspetto da collegarsi alla penuria di rapporti sociali : “non ho tempo, ho sempre meno tempo” [7 gennaio].
Vorrei formulare un’osservazione che può essere più o meno condivisibile, riguardante il confronto tra le dimensioni di Valeria e di Clara, successivamente di Mirella.
Espresisoni tipiche di Clara (che presagiranno emblematicamente accadimenti molto più in là nel romanzo) come …”mi domandava se avevo mai tradito Michele”…” Sei sempre innamorata di lui? Non sei stanca? Davvero non hai mai pensato a un altro? Ma che cosa avrà mai questo Michele, perché tu lo ami tanto, me lo domando”… ci possono far capire quanto i due mondi siano diversi da un lato, ma anche inversamente speculari. [19 febbraio]
Si può vedere come il mondo di Clara sia vagamente una dimensione con la quale confrontarsi che mette in rilievo quanto sia presente il senso di colpa nella sua realtà, come se certi pensieri neanche potessero balenare per la mente.
La dimensione di Clara è fatta di indipendenza, di amori e forse di tradimenti, ma ai quali non si dà eccessivamente peso, certamente fatta non da sensi di colpa, una dimensione costituita d’indipendenza, realizzazione a tutto tondo, dove la casa è tutt’altro che una prigione.
Comportamenti tabù, modi e abitudini per la concezione della sua vita da parte di Valeria, proibite.
Applicando lo stesso meccanismo, facendo ovviamente le giuste distinzioni, si può registrare un certo comportamento: “…osservavo Mirella: china sulla scrivania era intenta a verniciarsi le unghie con lo smalto rosso. Ha una mano lunga, fine, bellissima: la teneva appoggiata a un grosso volume di economia politica”.
In questo periodo si possono riscontrare due dimensioni negate: quella della coscienza della propria bellezza e quindi della cura consapevole del proprio corpo e quella della cultura, che nonostante Valeria non sia un’analfabeta, ma una persona istruita, come si dirà più avanti nel testo, a volte Mirella citava molti nomi e libri che la madre non conosceva e che sembravano darle torto.
C’è da distinguere tra la dimensione di Clara e quella di Mirella; se pur ci troviamo di fronte a due donne comunque nuove, Clara lo è di meno, ella non è altro che lo stereotipo maschile volto al femminile, la donna che per avere la propria indipendenza paga con la solitudine, mentre in Mirella si unisce una certa indipendenza a un progetto di vita comune, scostandosi dall’idea del destino femminile tradizionale, inesorabilmente legato al matrimonio.
A proposito di questo confronto tra la dimensione di Mirella e la propria alla sua età, ella ricorda, prendendo così consapevolezza:
“…non ricordo bene come fossero davvero i miei vent’anni e inoltre, se voglio essere sincera, mi sembrano molto diversi dai suoi. Io non rammento di essere stata padrona di scegliere tra il mio bene e il mio male, come ella è oggi; e non a causa di tante usanze che sono mutate, ma proprio per una mia condizione intima. Nei miei vent’anni c’erano già Michele e i bambini, prima ancora che incontrassi lui e che essi nascessero; erano nella mia sorte, più ancora che nella mia vocazione. Non avevo che da affidarmi, ubbidire” [25 gennaio].
Il romanzo si divide esattamente in due, nella seconda parte, seppur sempre presente, ci si rende conto di come questa sorta di negazione sia inversamente proporzionale a una certa presa di coscienza.
Uno degli elementi che metterà in moto questo meccanismo, sarà lo spietato confronto con la dimensione di Mirella.
I suoi comportamenti sono aspramente criticati e osteggiati, ma a mio avviso, ella ammira e forse invidia quello che è il suo mondo a cui vorrebbe appartenere, ma che le è in apparenza inesorabilmente negato.
A mettere allo scoperto questo perverso meccanismo, questa contraddizione nell’animo di Valeria, è l’espressione di Mirella: “sei gelosa”. [14 gennaio].
Ritornando al concetto di sotterfugio come prodotto di un tentativo di infrazione del proibito, sotterfugio come negazione della verità, menzogna programmata, possiamo osservare come Valeria si interroghi sulla natura della sua vera identità e quella degli altri.
“…mi pareva di aver perduto per sempre tutti quello che amo se essi, in realtà, sono diversi da come li ho sempre immaginati. Se, soprattutto”, io stessa sono diversa da come loro immaginano me.”
Passo emblematico, preso ad esempio da molti recensori di questo testo, che sta a testimoniare la profonda solitudine di Valeria.
Il meccanismo del sotterfugio deve essere continuamente applicato per difendere un’intimità formalmente negata (quando uso questo termine voglio intendere quasi sempre un sinonimo di proibito e viceversa) che ella sente continuamente minacciata; sono innumerevoli le volte in cui il quaderno viene cambiato di posto, le volte in cui ella architetta persino piani complessi per rimanere da sola a scrivere, le volte in cui ella si aggira furtiva con l’oggetto della vera verità credendo di aver sentito un rumore, temendo che qualcuno sia pronto a scoprire la sua clandestina attività.
Questa minaccia costante che ella avverte, la porta ad immaginare tutti i rischi che ella corre tenendo questo quaderno.
Al sotterfugio si unisce l’aspetto della paranoia, che qualche volta potrebbe suscitare ilarità:
“a momenti mi pare che Michele mi guardi con sospetto, o che, fingendo indifferenza, mi spii quando parlo al telefono come faccio io con Mirella per sapere con chi parla e che dice.” [10 febbraio]
Si avvede di portarlo fuori con sé perché se un’automobile la investisse, o comunque morisse, qualcuno potrebbe leggere nella sua intimità o peggio ancora Michele possa scoprire tutti i suoi inaspettati retroscena; allo stesso modo quest’ipotesi si applica a Mirella (che forse lo butterebbe senza neanche leggerlo) o a Marina, che leggendolo potrà distruggere l’immagine pura e perfetta fornita da Riccardo.
Tra le mille dimensioni negate, c’è quella della giovinezza e quindi della bellezza.
Valeria, nonostante la sua età non così avanzata, non crede affatto di poter sentirsi ancora giovane e bella, almeno inizialmente.
E’ insolito e ridicolo se qualcuno si trova a sottolineare queste qualità a se stessa negate.
“Oggi mi è accaduto qualcosa di insolito, una sciocchezza che mi vergognerei finanche di annotare se non ossi sicura che nessuno leggerà mai ciò che scrivo in questo quaderno. Nel pomeriggio, entrando nel portone del mio ufficio, ho visto un uomo alto, elegante…non ha staccato lo sguardo da me, mi fissava con uno stupore come se d’improvviso avesse visto un’apparizione gradita. Quando gli sono passata accanto ha sussurrato qualcosa che non ho capito…forse egli supponeva che io avessi due figli già grandi, mi vien voglia di ridere solo a pensarci, ma insomma ha detto “affascinante”.
Valeria è assai stupita del fatto che ancora può essere attraente per un uomo, ella ride, pensa che sia una sciocchezza, ritiene di non essere bella perché non più giovani; non si può essere giovani avendo due figli già grandi.
Ma successivamente questa auto-concezione andrà a modificarsi, questo piccolo episodio può essere avvertito come un presagio simbolico della futura relazione con Guido.
Subito dopo lo smarrimento di stupore, sopraggiunge una nuova consapevolezza: “tuttavia ora posso confessare che questo episodio mi ha messo addosso un’allegria che non provavo più da quando ero ragazza”. [19 gennaio].
Procedendo per analogia, analizziamo i vettori che hanno generato quella forza creatrice che interseca le vite di Valeria e Guido.
Nonostante si tratti di due universi diffenti, quelli del direttore e di Valeria, abbiamo un nodo centrale che lega indissolubilmente i due individui.
Entrambi, trovano nella dimensione lavorativa un certo sollievo, mentre la propria abitazione è considerata asfittica.
Entrambi hanno una famiglia e fuggono in qualche modo da essa.
L’ufficio e soprattutto l’ufficio nel sabato pomeriggio, arriva a diventare un segreto, come un rifugio nascosto, dove possono trovare quella serenità e quel tempo che gli è proibito.
Sarà il direttore stesso a confessarlo in quel significativo sabato pomeriggio:
“…Adesso lei conosce un mio segreto: io torno sempre in ufficio, il sabato pomeriggio, proprio per far nulla, riposare. Naturalmente se mi capita, scrivo qualche lettera.
Non lo dico a nessuno perché non oso confessare che mi trovo perduto, quando non sono in ufficio.
La domenica è un supplizio.
Del resto fuori, non trovo gran che d’interessante…”
“Il sabato c’è più movimento del solito, i ragazzi invitano sempre i loro amici, fanno chiasso. Io dico che ho un appuntamento in ufficio, ed esco”.
A sottolineare questa idea di rifugio, di fuga, di oasi proibita lontano dalle preoccupazioni, Valeria rimugina:
“Qui, Mirella, il mercato, i piatti sporchi, non potevano raggiungermi”.
[10 febbraio].
Ritornando a quella famosa domenica mattina, indicazione temporale in cui si apre il libro, in molti passi, Valeria sottolinea la sua felicità che attribuisce a cause che in realtà sono secondarie, quando invece quella principale è che è fuori casa, basta questo.
Quella domenica mattina Valeria diceva di sentirsi felice perché era un giorno di sole, si era svegliata presto per l’amorevole gesto verso il marito.
Il 17 febbraio osserva:
“oggi ho avuto una giornata piacevole forse perché, dopo colazione,sono andata dal parrucchiere. Quando esco dal parrucchiere, mi sembra di essere più giovane; mi propongo di tornarvi ogni settimana e poi non ho tempo né, soprattutto, danaro da buttar via.”
“Per la strada c’era un’aria frizzante. Mi sentivo così contenta e attiva che ho pensato di sfruttare il mio entusiasmo, andando in ufficio a evadere alcune pratiche arretrate.”
C’è sempre questa tendenza all’evasione, qualche volta nelle commissioni o in accadimenti extra-domestici o significativamente nel lavoro, in cui le pratiche arretrate sono associate all’entusiasmo e all’idea di rifugiarsi in qualcosa.
“Da un po’ di tempo in qua qualcosa di irragionevole desiderio di vacanza s’impossessa di me, mi suggerisce di spalancare la finestra, sentire aria fresca sul visto, mi riporta alla memoria boschi, campagna, paesaggi marini e alla fine, sempre, Venezia.
Mi basta rientrare in casa perché questo festoso impulso si disperda. A casa, non so perché, ho sempre voglia di chiedere scusa.” [24 febbraio]
In contrapposizione a questo spirito di distaccamento dalla propria dimensione abituale, è da sottolineare l’impiego di alcuni verbi legati al senso del dovere come impossibilità di evasione da una dimensione/ruolo assegnato:
“è mezzanotte, sono obbligata ad aspettare che rincasi Mirella”.
[17 febbraio].
Qualche volta, ritengo, che il senso del proibito, non solo è insito (e combattuto) in Valeria, ma spesso anche incarnato.
“Se Mirella o Riccardo ricevono alcuni amici e io entro nella stanza ove sono riuniti, tutti subito tacciono e s’alzano in piedi con quel fare tra rispettoso e diffidente che si assume quando la maestra entra nell’aula.
Eppire io mi mostro affettuosa, gioviale, tendo di rendermi gradita offrendo loro qualche dolciume e il caffe…essi mi guardano incerti, studiandosi di indovinare quale inganno vi sia sotto la mia premura. Talvolta…discorro con loro…assumo atteggiamenti liberali, sperando così di avvicinarmi al loro modo di pensare, alla loro età. Ma più mi allontano dall’idea che essi hanno dei genitori…più li sconcerto e li intimidisco” [27 febbraio].
Questi passi dimostrano come il concetto del proibito, sentito o incarnato, sia da collegare alla differenza generazionale e quindi all’apparato storico relativo.
Ne consegue il fatto che Valeria percepisce spesso questo rapporto oppositivo nei confronti dei familiari, le dimensioni intime (proibite, perlomeno parzialmente, agli altri familiari) pur convivendo, si scontrano inevitabilmente e ognuno prepara le proprie difese come può.
Ad esempio, i segreti di Mirella sono scrutati furtivamente dalla madre, le traccie di Cantoni sono occultate gelosamente.
“Vedo Mirella che esce di casa con il suo diario nella borsetta, Michele che torna in banca, il sabato, per scrivere in pace il soggetto, Riccardo che ha incollato sulla parete della sua camera la fotografia delle montagne argentine e mi sembra che, r volendoci tanto bene, ci difendiamo l’un l’altro come nemici”.
[27 febbraio]
Precipitando nel grottesco, c’è una scena che indica come le sfere del proibito, inteso come mondo della “privacy” (si direbbe oggi), vengono in contatto con intenzione profanatoria:
“ho infilato il coltello tra il cassetto e il piano della scrivania, ma con mia sorpresa, l’ho sentito cadere subito perché era aperto. Il diario non c’era.
Non c’è più. Nel cassetto di Cantoni nessuna traccia.”
[27 febbraio]
Terminata questa breve parentesi sul proibito “incarnato”, proseguirei con quella forma di proibito che definirei “condizionale”: vorrei, ma non posso.
Valeria vorrebbe essere, fare ed avere molte cose, ma è proprio l’oscillare tra il polo della restrizione e quello della trasgressione che fa sì che ella rimane sempre in quella inconcludente posizione centrale; dolorosamente cosciente, ma inconcludente.
Se si applica il concetto del “vorrei” al quaderno, lo si può applicare chiaramente all’intera condotta di vita.
“Mi basterebbe poter parlare a qualcuno dell’esistenza di questo quaderno e il sentimento di colpa che mi opprime si dissiperebbe. Certe volte vado a trovare mia madre, decisa a parlargliene…vorrei parlarle anche del pomeriggio di sabato. Anzi, è di quello che vorrei parlarle più ancora che del quaderno. Invece, non so perché, appena entro incomincio a lagnarmi di Michele, del suo umore, della sua indifferenza verso i problemi dei ragazzi.”
[14 marzo]
L’ultimo nodo finale da analizzare, presente nel testo ed inerente all’apoteosi dell’espressione del proibito, inglobando il costante dualismo tra restrizione e trasgressione, si concretizza nella relazione, esplosa ed implosa, tra Valeria e Guido.
A mio parere, questa relazione rappresenta simbolicamente la presa di coscienza del personaggio centrale.
Guido ha sempre mandato a Valeria dei segnali del suo interesse, segnali che la madre aveva saputo cogliere, mostrando una certa diffidenza preconcetta nei confronti di quell’uomo che affidava alla figlia incarichi importanti, scavalcando persino “uomini” e magari laureati.
Valeria non aveva mai visto un doppio fine nei fiori che durante le ricorrenze Guido usava regalarle.
“Ogni anno egli mi ha mandato fiori o dolci, per accompagnare gli auguri, ma mi pare che questa sia la prima volta”. [29 marzo].
Spesso Guido sarà il termine di paragone di Michele, sarà grazie a lui che Valeria capirà molte cose riguardo alla precendete/attuale relazione coniugale.
“Ogni volta che Guido entra in ufficio, la mattina, fresco, odoroso di lavanda, con la camicia di seta, i vestiti nuovi dai risvolti ancora arrotondati, mi viene di fato di pensare ai vestiti di Michele. Non so spiegarmi, ma mi pare che attraverso di me, Guido gli rubi la possibilità di vestire anche lui con eleganza, e anche il buon successo che riscuoterebbe con quegli abiti che non può possedere”. [4 maggio]
Centrale è la scelta da fare in questa relazione: partire o non partire per Venezia, la meta agognata, simbolo dell’amore romantico, dove dice che questo diromente desiderio è “fame”. Secondo i dettami della cultura di Valeria, partire sarebbe proibito, come lo è il quaderno, “nero e lucido come una sanguisuga”, che ella stessa accusa di aver cambiato i rapporti Con guido e come ha iniziato a tenere nascosto.
A questo proposito ci sono diverse soluzioni che Valeria trova: infrangere le barriere del proibito e dopo ritornare sui vecchi binari.
“Sono decisa a partire con Guido. Ma poi al ritorno, non lo vedrò più. Non potrei condurre una vita di sotterfugi, di bugie. Lui capirà mi aiuterà a trovare un altro impiego; in casa nessuno obietterà, se lo stipendio sarà migliore. Ma ora voglio partire”. [5 maggio]
Sin dall’inizio ella dichiara di voler rifiutare una doppia vita che sarebbe una tipica soluzione tradizionale, ovvero la coesistenza del marito e dell’amante.
Per quanto riguarda il grado di profanazione del proibito, vediamo che è un livello intermedio quello che si raggiunge: la protagonista dopo una lunga resistenza, non ci darà mai atto di una concessione carnale (perlomeno non viene mai dichiarato e di conseguenza, prendiamo atto che sia così), tuttavia, verso la fase finale del testo, ella comunque si abbandona.
“Mi sentivo sperduta, ho chiamato “Guido” lui è venuto presso di me [allusione mal celata?] e mi ha baciata. Fino a quel momento in cui ci siamo lasciati, non abbiamo fatto altro che baciarci, guardarci e tornare a baciarci”.[5 maggio]
Se da un lato il polo del “vietato” viene ampiamente raggiunto/oltrepassato, pur non sfiorando gli estremi, dall’altro, vi è costantemente un ritorno immediato alla realtà della restrizione.
“Nel rincasare mi pareva di avere le visti in disordine, il viso sconvolto. Temevo che Michele se ne avvedesse”…successivamente, lancia un gesto di aiuto, apparentemente rivolto verso Mirella, ma tutto ci fa presagire che fosse rivolto a se stessa: “Bisogna che tu prenda qualche provvedimento, che tu impedisca…”.
[5 maggio]
L’ammissione dell’amore arriva in contemporanea alla decisione di non partire più, come a riaffermare continuamente la lacerante coesistenza dei due poli.
“Mi sorrideva dicendo: – Ti amo -. Io guardandolo fisso, mormoravo: – Ti amo – . Era la prima volta che lo dicevo…”… “Non potevo potevo staccare gli occhi dal suo viso e in me tutto er un bene che doleva. –
Lo sai, Guido, che non partiremo mai? “…”Saremmo lì in prigione” ho replicato – come lo siamo qui, o nella tua macchina, o nel caffè quando ci guardiamo attorno. Dietro sbarre che non possiamo abbattere perché non sno fuori di noi, ma in noi stessi.”
Così come sfuma il sogno di Venezia, insieme alla negazione dell’amore, naufraga nel nulla il quaderno in tutto il suo eroismo sconfitto: “Di tutto quanto ho sentito e vissuto in questi mesi, tra pochi minuti non vi sarà più traccia.