Lorenzo Cilembrini , cantautore aretino conosciuto meglio come “Il Cile” dopo due anni dal disco precedente “Siamo morti a vent’anni” , torna con un nuovo disco.
In Cile veritas” è la sua nuova fatica,  che segue lo straordinario successo dell’album d’esordio.
Notevoli i riconoscimenti della critica  in occasione del Festival di Sanremo 2013 e nel 2012 ha debuttato al quinto posto della classifica FIMI/GFK dei dischi più venduti.

Il Cile - In Cile Veritas - Artwork

 

In Cile Veritas, è stato distribuito dalla Universal Music e prodotto da Fabrizio Barbacci , si apre con “Sapevi di me“, che è stato scelto come singolo per un videoclip in cui sono protagonisti una bella manciata di fans e utilizzate alcune loro polaroid.
Se Lorenzo fosse nato qualche secolo fa, sicuramente sarebbe stato più un poeta che un musicista, a volte penso che i testi siano davvero dieci spanne in alto per stare dentro a una (qualche volta) classica canzone all’italiana (tirannia delle case discografiche?).
Insieme ai dei testi sempre pungenti, ben levigati, come se sanguinassero, c’è un timbro che trasuda verità (veritas, appunto!) e trasognato disagio.
Personalmente sono affezionato (anche per motivi personali!) al Cile di “Cemento Armato”, brano d’esordio criticato da molti e apprezzato da altrettanti, che comunque ha decretato il grande successo di questo giovanissimo cantautore, tra l’altro mio concittadino che non ho mai avuto l’onore di incontrare personalmente.
Sono soprattutto affezionato a brani come “Il mio incantesimo”, di cui mi sono divertito a ri-arrangiare in una cover con il mio gruppo musicale, gli Assassini del pop.
Rimangono in mente di questo brano (Sapevi di me), immagini assolutamente incisive quali “Dimmi ancora se Che Guevara è l’unico uomo che ti ispira sesso”…”Se faresti la rivoluzione nonostante la borsa di Prada”.
Le strofe si presentano un po’ piatte, tuttavia a metà del brano, acquista un’aurea sognante, finalmente di ampio respiro, con degli archi ben fatti che si mescolano alle chitarre in modo sapiente, senza tuttavia strafare. E’ come se questo brano trasportasse indietro in un clima adolescenziale perenne, una piccola sindrome di Peter Pan piacevolissima e ci riesce benissimo.

Dopo troviamo “Ascoltando i tuoi passi“, dove colpisce un sinth che dà movimento alle strofe e il resto è affidato alle immagini suggerite dal testo, un brano che se fosse un momento dell’anno, sarebbe un pomeriggio d’inverno di una Arezzo piovigginosa e “Liberi di vivere”, sembra richiamare quelle atmosfere di “Morti a Vent’anni”, ma in maniera molto molto più light; una chitarra e batteria piuttosto regolari, senza dar adito a particolari soluzioni sorprendenti dal punto di vista degli arrangiamenti che in questo brano avrebbero potuto dare di più, fatta eccezione per degli interessanti interventi di fiati a metà brano e pad molto discreti che fanno da contorno in lontananza.

“L’amore è un suicidio” è di per sè un bellissimo titolo, emblematico a prescindere; idea interessante la citazione dei Beatles, impossibile non gradire…un ritmo sostenuto come a voler esorcizzare le sofferenze dei sentimenti, una poetica più “easy” e meno ricercata del solito, tuttavia un must gradito per i fan.
Questa volta l’arrangiamento ha spunti più interessanti rispetto al brano precedente, colpisce un micro-intervento di sinth a 2.29…tuttavia continuo a ribadire la mia teoria: i testi sono così belli che andrebbero valorizzati maggiormente dagli arrangiamenti che dovrebbero osare di più a mio avviso, è come se tutto fosse incastonato in una confezione sonora “standard”, quando il progetto potrebbe volare molto, molto più in alto…non me ne vogliano gli arrangiatori che, come ho accennato, sicuramente anch’essi seguono le dure leggi della discografia, contro la loro stessa volontà, ingabbiando la loro libertà creativa che forse vorrerebbe e potrebbe uscire “dai gangheri” ogni tanto, cosa che si avverte maledettamente.
E chissà se degli arrangiamenti più ricercati avrebbero inciso anche nella durata del disco, che sicuramente avremmo gradito superare i 37 minuti.
Con “Parlano di te“, potrei ripetere lo stesso identico discorso che ho accennato in “Liberi di vivere” per quanto riguarda la questione degli arrangiamenti, mentre rispetto assolutamente l’impronta stilistica dei testi che affrontano il tema dell’amore con grande verità, cosa non facile. Senza mai cadere nei cliché delle canzoni d’amore, ma giocandoci in modo intelligente.

Passiamo a “Baron Samedi“, un brano che vuole giocare tra spensieratezza musicale e malinconia tematica nei testi, tuttavia la poetica del cantautore si evince in maniera sicuramente più incisiva nei brani precedenti del disco, un buon brano di riempimento tutto sommato. Con Sole cuore alta gradazione“, è una canzone estiva per eccellenza, quasi a voler parodiare il tormentone “Sole, cuore, amore” di Valeria Rossi, un’idea stuzzicante che aggiunge un po’ di spirito parodico, un po’ di trasgressione alcolica nel solito piatto tran tran di tutte le estati.

Andiamo verso la fine con “Maryjane“, anche qui si ritorna piacevolmente al beatlesiano, inserito senza osare troppo in quella imprescindibile cornice pop (pe a pera) di cui abbiamo parlato, titolo affascinante e testo sognante.“Vorrei chiederti” ci  riporta ancora in quel clima adolescenziale visto con occhi originali, dipengendo il tutto con tinte per niente banali,  un inciso con un bel respiro melodico, tra immagini evocative come “quindici anni”, “scuola”, “Milano”…Ultimo brano, “Un’altra aurora” che segna la fine del disco, direi un finale perfetto.
Si possono cogliere i seguenti giochi concettuali: un brano alla fine che parla di aurora (come a voler creare un ossimoro), nel testo appare addirittura la parola “fine”, come se questi elementi fossero dei messaggi subliminali che fanno assaporare a pieno questa chiusura.
Frasi come “mi ammazzerei” richiamano il tema di “l’amore è un suicidio”, creando un equilibrio tematico interessante.
Tuttavia, l’epilogo lascia all’ascoltatore un sapore di positività, un messaggio di speranza, nonostante le sofferenze e i trascorsi negativi che siamo costretti ad affrontare.

 

Recensione a cura di Giovanni D’Iàpico (Biluè)

 

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